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Riflessione

L’umiltà di frate Serafino da Montegranaro

Di Daniele Malvestiti. Se pensiamo che nostro Signore Gesù Cristo, pur essendo di natura divina spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, così umiliandosi e facendosi obbediente fino alla morte in croce, ci rendiamo conto che l’umiltà è una caratteristica fondamentale dell’autentica vita cristiana. Sant’Agostino scrisse: “Se mi chiedete che cosa vi è di più essenziale nella religione e nella disciplina di Gesù Cristo, vi risponderò: la prima cosa è l’umiltà, la seconda, l’umiltà, e la terza, l’umiltà”; ed è proprio nell’umiltà del Verbo incarnato che, oltre a manifestarsi la profondità dell’amore di Dio per noi, ci viene fatto conoscere il cammino che conduce alla pienezza di quello stesso amore. Se questa splendida virtù è caratteristica essenziale del Cristiano, possiamo affermare che quanto ad umiltà e povertà, forse nessuno fu più umile e povero di frate Serafino da Montegranaro che, entrato nell’ordine dei frati minori Cappuccini nel 1557, in 47 anni di vita religiosa fu fulgido esempio di come la grandezza nel nostro Dio si possa manifestare nella vita di tutti i giorni. Quando il frate montegranarese, la cui famiglia in paese era dialettalmente chiamata “de Piampià” (ossia Piampiani), divenne conosciuto in tutta le Marche (e oltre) perché col suo piccolo crocefisso d’ottone guariva moltissime persone. Ma ogni volta, temendo di essere ringraziato ed omaggiato, dopo aver pregato intensamente ed ottenuto la guarigione, subito si alzava e si allontanava bruscamente senza far cenno di saluto ai congiunti o a quanti erano presenti.  Questo suo modo di fare da alcuni era ritenuto quantomeno sgarbato, rozzo e insolente quando, invece, era esclusivamente dettato dalla estrema sua umiltà e pudicizia, che gli imponeva di evitare tutte le espressioni di ringraziamento, gratitudine o riconoscenza. Quando, circa nel 1583, si trovava nel convento di Civitanova e c’era sempre tantissima gente che lo cercava per ottenere guarigioni, il superiore gli ordinò di rivelargli con che mezzi aveva acquistato tanta perfezione. Allora, si legge nel processo, egli rispose come lui stesso, essendo persona inadatta ad ogni esercizio, si meravigliava grandemente d’essere stato accolto dai Cappuccini e poi ammesso alla professione. Successe inoltre, al tempo in cui era nel convento di Ascoli, che il fratello Silenzio gli portasse il figlio Ippolito che sembrava indemoniato. Dopo essersi fatto raccontare i fatti, con grande umiltà fece osservare a Silenzio che però bisognava parlarne al padre Guardiano, perché questi era sacerdote (lui era laico professo) e, se ci fosse stato bisogno di fare esorcismi, solo lui aveva le capacità e l’autorità per farlo. Naturalmente il Superiore ordinò che fosse lo stesso zio frate a benedirlo e subito “…quel furioso giovane, al tocco di quel crocefisso, fu liberato da ogni agitazione e, s’inginocchiò davanti allo zio frate …”. La gente, in Ascoli, gli andava incontro per baciagli la mano o la tonaca, ma lui non voleva assolutamente e invece porgeva al bacio il piccolo crocefisso d’ottone che aveva sempre in mano e che ora è gelosamente conservato dai suoi confratelli ascolani. La sua umiltà e povertà era riscontrabile anche dalla scarsissima cura che prestava alla sua persona ed alle sue vesti. I testimoni che l’hanno visto e conosciuto raccontano che aveva la barba ed i capelli sempre arruffati, che gli puzzava molto il fiato, che la tonaca era rattoppata con molte pezze, che gli scendeva sempre dalla parte sinistra e che sotto gli si vedeva il cilicio. Questa sua umiltà e povertà, tale rinnegamento e annientamento di sé è forse il segreto della sua santità se si considera che, anche se con la tonaca rappezzata, con i sandali malconci e ricuciti alla meglio, con la corona, fatta di canna di finocchio e pezzi di zucca, la gente aveva più fiducia in lui che in tutti i medici della città.  San Serafino, prega per noi.